C’é qualcuno nel Parlamento e nel Governo italiani disposto ad ascoltare la denuncia dei genitori che “la chiusura straordinaria dei centri diurni e delle scuole ha fatto sì che tutto il carico assistenziale si sia riversato interamente sulle famiglie persino laddove vi sia l’evidenza estrema dell’impossibilità di conciliare l’attività prioritaria dell’accudimento con l’attività lavorativa della sussistenza” (nota CONFAD, 19.3.20)?

Ospitiamo il contributo del nostro Osservatorio parlamentare “Vera lex?” sul fondamentale tema della tutela dei disabili, per il Centro Studi Livatino.

Senza attenzione per i disabili non c’è “cura Italia”

Desta non poche perplessità quanto nel DL 17 marzo 2020 n. 18 dovrebbe tutelare le persone disabili in questa fase di emergenza: in particolare, richiamo l’attenzione sul contenuto dei suoi art. 23, 24, 26, 39, 47, 48 e 40, tutti contenenti disposizioni direttamente o indirettamente incidenti sulla condizione di chi ha una disabilità.

  1. Permessi e assenza dal lavoro per quarantena (art. 23, 24, 26 e 39). Gli art. 24 e 26 co. 2 ampliano la possibilità di utilizzare i benefici della legge n. 104 del 5 febbraio 1992. In particolare, l’art. 24 incrementa “di ulteriori dodici giornate usufruibili nei mesi di marzo e aprile 2020” “il numero di giorni di permesso retribuito coperto da contribuzione figurativa di cui all’art 33, comma 3” della citata legge n. 104. Considerando che l’evocata norma già prevede tre giorni al mese, per aprile e maggio 2020 si giunge fino a diciotto giorni complessivi di possibile assenza dal lavoro per esigenze di assistenza a portatori di handicap da parte di genitori, coniugi e figli, oltre che per gli stessi disabili.
    L’art. 26, poi, equipara il periodo di quarantena per “disabili ex art. 33, comma 3, Legge 104/92” (fino al 30 aprile 2020) a un “ricovero ospedaliero”, così come disposto per i dipendenti pubblici dall’art. 19 co. 1 del DL 2 marzo 2020 n. 9.
    L’art. 23 co. 5 prevede invece una fattispecie particolare rispetto ai nuovi permessi parentali straordinari per i figli infradodicenni, nel senso che, qualora si tratti di “figli con disabilità in situazione di gravità accertata ai sensi dell’art. 4, comma 1, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, iscritti a scuole di ogni ordine e grado”, i permessi saranno concessi anche per i minori di età superiore ai dodici anni.
    L’art. 39, infine, riconosce “il diritto a svolgere la prestazione di lavoro in modalità agile” (c.d. smart working) per i disabili gravi e per chi ha nel proprio nucleo familiare una persona in tale condizione.
    Le misure sono, dunque, tutte disposte solo per chi è affetto da disabilità “grave”, la quale, come è noto, deve essere – anche ex art. 4 della legge n. 104/1992 – previamente certificata dalle commissioni mediche che operano presso le Aziende USL per l’invalidità civile (Legge n. 295/1990), integrate da un operatore sociale e un esperto nei casi da esaminare (Legge n. 104/92 – art. 4), nonché da un medico dell’INPS per effetto delle disposizioni introdotte dall’art. 20 del decreto-legge n. 78/2009 convertito dalla legge n. 102/2009, che peraltro ha “in ogni caso” attribuito all’INPS stessa il compito dell’accertamento “definitivo” sullo status di gravità.
    La situazione causata dalla pandemia provoca però pesanti difficoltà anche ai disabili con handicap seri, benché non ufficialmente bollinati come gravi: il che non rende ragionevole la limitazione delle misure ai soli nuclei familiari con disabili già così certificati ai sensi dell’art. 4 Legge n. 104/1992, con la conseguenza che – senza supporti per questo tempo emergenziale – troppe persone con disabilità di diverso tenore e le loro famiglie avranno difficoltà estreme. Lo scenario non è solo ingiusto, bensì pure incoerente con la normativa ordinaria, in quanto l’art. 3 co. 3 della stessa legge n. 104/92 impone di riconoscere, con un giudizio sostanziale e non formale, che “la situazione assume connotazione di gravità” ogni qual volta “la minorazione, singola o plurima, abbia ridotto l’autonomia personale, correlata all’età, in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione”.
    La disciplina per l’emergenza dovrebbe allora allargare la platea dei disabili cui estendere i benefici degli art. 23 co. 5, 24, 26 co. 2 e 39, o almeno “liberare” i portatori di handicap dalle strette e complesse maglie delle pretese burocratiche oggi imposte per riconoscerne la “gravità”. In tal senso, ai meri fini degli stessi benefici introdotti dalla legislazione dell’emergenza (permessi retribuiti, smart working, ecc) e per la sola durata del presente periodo, si dovrebbe semplificare il riconoscimento della “gravità” dell’handicap, che potrebbe essere attestato da una certificazione rilasciata dal medico di famiglia o da un appartenente al Servizio Sanitario, acquisibile fino alla durata della pandemia, ove si attesti che la “minorazione” di una persona necessita – nella particolare contingenza in atto – proprio di quell’“intervento assistenziale continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione”, indicato dai canoni sostanziali del ricordato art. 3 co. 3 della legge n. 104/92.
    Sono infine insufficienti i giorni straordinari di permesso retribuito consentiti dall’art. 24 del DL n. 18/2020. Se infatti la disabilità determina la necessità di essere assistiti in ragione delle condizioni critiche cui costringe l’isolamento o la mobilità ridotta per il rispetto dei parametri sanitari imposti alla popolazione, tale esigenza non può essere riconosciuta solo per diciotto giorni rispetto ai sessanta di cui sono composti i mesi di marzo e aprile 2020 considerati dalla stessa norma.
  1. Le conseguenze della chiusura delle strutture per la disabilità (art. 47 e 48). L’art. 47 del DL n. 18 sospende sull’intero territorio nazionale l’attività dei “centri semiresidenziali per persone disabili”, comunque essi “siano denominati”, “tenuto conto della difficoltà di far rispettare le regole di distanziamento sociale”. L’art. 48 prende in esame la fattispecie dei “centri diurni per anziani e per persone con disabilità”, le cui attività siano state sospese per disposizione di “ordinanze regionali o altri provvedimenti, considerata l’emergenza di protezione civile e il conseguente stato di necessità”. Se è comprensibile la preoccupazione sanitaria del legislatore dell’emergenza, ci si sarebbe attesa però pari attenzione per le conseguenti gravi difficoltà per i disabili stessi e per i rispettivi nuclei familiari; invece ci si trova di fronte a una panoramica di interventi riparatori non chiari, parziali, di difficile attuazione pratica, per quanto descritto a seguire.
    2a. Insufficiente chiarezza. Il perimetro dell’art. 47 (centri semiresidenziali con attività sospesa ex lege per contenere la diffusione del virus) non coincide con quello indicato nell’articolo successivo (centri diurni sospesi con ordinanze regionali o provvedimenti amministrativi per esigenze di protezione civile). Non si capisce se le diversificate rappresentazioni delle fattispecie siano esiti di infelici descrizioni di realtà che si vorrebbero equivalenti, o se siano effettivamente così volute, visto che vi sono differenti conseguenze rispetto ai prospettati interventi dell’Unità sanitaria competente per territorio: interventi “compensativi” facoltativi per i “centri residenziali chiusi ex lege” (art. 47), ma “prestazioni domiciliari individuali” obbligatorie (art. 48) per i “centri diurni sospesi con provvedimenti amministrativi”. Una simile oscurità è foriera di incertezze operative, che vanno evitate, soprattutto in emergenza. Una maggiore chiarezza è altresì dovuta per almeno intuire le ragioni di misure riparatrici tanto differenti per situazioni per la verità assai simili.
    2b. Parzialità degli interventi riparatori. A fronte della chiusura coatta delle strutture “semiresidenziali” dedicate a portatori di handicap, il co. 1 dell’art. 47 si limita a “consentire” (“può”) all’Azienda sanitaria di “attivare interventi non differibili in favore delle persone con disabilità ad alta necessità di sostegno sanitario”, peraltro solo “ove la tipologia delle prestazioni e l’organizzazione delle strutture stesse consenta il rispetto delle previe misure di contenimento”.
    La cessazione delle prestazioni delle strutture avrebbe dovuto sempre essere accompagnata dalla garanzia di livelli di assistenza ai disabili equivalenti a quelli erogati prima della chiusura. Pure in questo caso la semantica del DL n. 18/2020 svela l’aporia da emendare: come è possibile riconoscere la presenza di interventi “non differibili” con la contestuale previsione di un intervento solo eventuale dell’Amministrazione sanitaria? Un’attività che può anche non essere svolta produce effetti per definizione differibili, il che svela l’insanabile contraddizione della disposizione.
    Né va dimenticato che le strutture “chiuse” ai sensi dell’art. 47 concorrono a raggiungere i Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), atteso che l’art. 34 del DPCM 12 gennaio 2017, come parafrasato nel portale del Governo (cfr. http://www.salute.gov.it), dispone che “Il Servizio sanitario nazionale garantisce alle persone con gravi disabilità che abbiano bisogno di trattamenti riabilitativi intensivi (almeno 3 h/die) o estensivi (almeno 1 h/die), la possibilità di essere ricoverate in strutture residenziali extra ospedaliere che offrano loro l’assistenza di cui hanno bisogno”. È pertanto necessario che il verbo utilizzato nel secondo periodo del co. 1 dell’art. 26 del DL 18/20, riferito all’ “Azienda sanitaria locale” sia modificato da “può” a “deve”.
    2c. La probabile inefficacia delle misure riparatrici. Sia all’art. 47 che all’art. 48 si prevede che l’Unità sanitaria pubblica si attivi d’ufficio per sostituirsi, facoltativamente nel primo caso e obbligatoriamente nel secondo, alla normale attività assistenziale di opere sociali e/o sanitarie di soggetti no profit o privati. Peraltro, in entrambi i casi tale “supplenza” appare condizionata da fattori a loro volta passibili di una valutazione complessa, quali la compatibilità del tipo di prestazioni e l’organizzazione delle strutture per l’art. 47, ovvero le specifiche direttive sanitarie che dovrebbero essere previamente impartite per le prestazioni domiciliari di cui all’art. 48.
    Alcune rappresentanze del mondo della disabilità hanno messo in guardia da una “effettività dubbia se non addirittura controversa” delle “indicazioni del decreto” che, a causa di “una serie di distinguo”, “non affronta né in efficacia né in uguaglianza le situazioni derivanti dalla sospensione dei servizi educativi e scolastici e delle attività sociosanitarie e socioassistenziali dei centri diurni per anziani e per persone con disabilità” (nota 19 marzo 2020 di CONFAD-Coordinamento nazionali famiglie con disabilità). Sono norme da riscrivere lasciando spazio al principio di sussidiarietà e, perciò, affidando l’iniziativa per le prestazioni di emergenza agli stessi gestori dei servizi sospesi, che potrebbero predisporre piani di azione adeguati alle prescrizioni sanitarie e sottoporli poi agli uffici delle USL, con termini certi per il controllo da parte dei preposti uffici pubblici.
    2d. L’ingiusto ulteriore onere a carico dei familiari. Si è detto – al § 1 – della limitazione di alcuni benefici aggiuntivi, quali i permessi retribuiti della legge 104/92 (art. 24) o il lavoro agile (art. 39) solo a chi assiste disabili gravi: e per chi – a causa della chiusura delle strutture semiresidenziali e/o diurne – deve comunque assistere disabili non dichiarati gravi? Il Governo sembra rendersi conto del gran numero di casi in cui vi sarà bisogno di maggiore assistenza per effetto della sospensione dell’attività di tali strutture, visto che il co. 2 dell’art. 47 prevede che “l’assenza dal posto di lavoro da parte di uno dei genitori conviventi di una persona con disabilità”, precedentemente ospitata in un centro semiresidenziale, “non può costituire giusta causa di recesso dal contratto di lavoro ai sensi dell’art. 2119 del Codice civile”?
    Raramente si incontra una disposizione tanto freudianamente condizionata, giacché rappresenta una sorta di ammissione che i genitori di minori disabili non gravi saranno abbandonati a sé stessi: il Governo sa che i genitori dovranno necessariamente assistere i figli disabili durante le sospensioni di attività tanto essenziali da essere inserite nei LEA, ma si limita ad erigere una difesa residuale contro un probabile licenziamento per allontanamento dal posto di lavoro. Perché tale categoria di genitori non è stata almeno considerata nella platea dei beneficiari delle misure descritte agli art. 23 (congedi parentali), 24 (permessi retribuiti), 26 (equiparazione a ricoveri) e 39 (smart working)? Perché il legislatore dell’emergenza non predispone più adeguate misure di supporto per chi deve dedicarsi ai più deboli, come moltissimi disabili non “gravi” e le loro famiglie?
    C’è qualcuno nel Parlamento e nel Governo italiani disposto ad ascoltare la denuncia dei genitori che “la chiusura straordinaria dei centri diurni e delle scuole ha fatto sì che tutto il carico assistenziale si sia riversato interamente sulle famiglie persino laddove vi sia l’evidenza estrema dell’impossibilità di conciliare l’attività prioritaria dell’accudimento con l’attività lavorativa della sussistenza” (nota CONFAD, citata)?
  1. L’absurdum per disabili e imprese dell’art. 40. L’art. 40 del DL n. 18/2020 non ha significato giuridico, nel punto in cui, fra le molte fattispecie ivi affastellate, inserisce anche la sospensione dell’art. 7 della legge 12 marzo 1999 n. 68 “norme per il diritto al lavoro dei disabili”. Con la sospensione di tale norma per il periodo dell’emergenza i datori di lavoro non sono più obbligati ad assumere lavoratori disabili nelle proporzioni stabilite dall’art. 3 della medesima legge, altresì eliminando in questo periodo gli adempimenti connessi da parte delle strutture pubbliche preposte (Centri per l’Impiego).
    È una evidente e macroscopica penalizzazione per le persone disabili, che non verranno assunte a mezzo del “collocamento mirato”, senza che sia dato comprendere quale interesse pubblico giustifichi questo venir meno agli scopi di solidarietà fissati dalla legge n. 68/99; né si capisce in che senso il sacrificio occupazionale che viene fatto gravare sui portatori di handicap sarebbe funzionale all’emergenza per il Covid2019.
    Si potrebbe ipotizzare che tale disposizione sia funzionale ad alleggerire gli oneri richiesti alle imprese. Per quanto un simile scopo non deve andare a discapito proprio di soggetti svantaggiati quali i disabili, esso nemmeno sembra effettivamente perseguito. Infatti, vengono sospesi gli “obblighi” di assumere, ma l’art. 40 del DL n. 18/20 non precisa se venga meno, nel tempo dell’emergenza, anche lo status di inottemperanza di una impresa ai sensi dell’art. 3 della stessa legge n. 68/99, che invece non è sospeso, e quindi è pienamente operativo. In altri termini, se una ditta non rispetta le quote di dipendenti disabili fissate dall’art. 3 citato, è inottemperante ai sensi della legge n. 68/99 e per partecipare a una gara pubblica dovrebbe preventivamente diventare ottemperante. È noto, infatti, che l’art. 17 della normativa del 1999 prescrive che “le imprese, sia pubbliche che private, qualora partecipino a bandi per appalti pubblici o intrattengano rapporti convenzionali o di concessione con pubbliche amministrazioni, sono tenute a presentare preventivamente alle stesse la dichiarazione del legale rappresentante che attesti di essere in regola con le norme che disciplinano il diritto al lavoro dei disabili, pena l’esclusione”, esclusione che viene ribadita anche dall’art. 80 co. 5 del Codice degli Appalti pubblici di cui al D. Lgs. 18 aprile 2016 n. 50. In tal caso, seppur inottemperante, questa ditta verrebbe indotta dall’art. 40 del DL 18/20 a non assumere disabili, ovvero, nel caso essa non abbia dei profili nominativi da ingaggiare, il Centro per l’impiego non ne fornirebbe dalle sue graduatorie, cosicché tale società rimarrebbe al di sotto delle quote di cui all’art. 3 della legge 68/99 e verrebbe esclusa dalla gara. L’art. 40 del DL n. 18/2020 ottiene così il pregevole contestuale risultato di penalizzare l’occupazione dei disabili e di pregiudicare le imprese.
    Di più. In varie disposizioni il DL “cura Italia” prevede accelerazioni procedimentali per le forniture e/o i servizi sanitari acquisibili dall’imprenditoria privata, ma in nessun passaggio deroga ai requisiti per la partecipazione a tali procedure pubbliche quanto alla presenza in organico dell’impresa partecipante di una quota di disabili coerente con le prescrizioni dell’art. 3 della legge n. 68/1999: col paradossale effetto di procedure d’emergenza per le necessità sanitarie più acute, che potrebbero però risultare inutilmente svolte o aggravate a causa della inottemperanza della ditta fornitrice prescelta, la quale, in ragione della sospensione degli obblighi di assunzione dei disabili disposta dall’art. 40, se si trova in uno stato di inottemperanza ai sensi della legge 68/99, non potrebbe sanare la propria posizione e verrebbe dunque esclusa ai sensi del richiamato art. 80 co. 5 del Codice degli Appalti pubblici.
    Sarebbe più opportuno sospendere il concetto stesso di “ottemperanza” ai sensi dell’art. 3 della legge n. 68/99 per il periodo emergenziale, ovvero mantenere detto obbligo, ma semplicemente non pretendere che lo status di ottemperanza preesista alla gara a pena di esclusione, consentendo – in via del tutto derogatoria – all’impresa di provvedere agli obblighi di assunzione dei disabili anche a valle della procedura di aggiudicazione della commessa pubblica. In tal modo si semplificherebbero gli adempimenti condizionanti la partecipazione alle gare senza ingiustamente sacrificare il “diritto al lavoro dei disabili” di cui alla legge n. 68/99, e soprattutto di cui all’art. 3  co. 2 Cost.

Confidiamo che tali profili critici siano affrontati e risolti in sede di conversione: penalizzare i disabili e i più deboli è il contrario di un “cura-Italia”.

                                            Avv. Domenico Menorello,
presidente dell’Osservatorio parlamentare “Vera lex?”

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