<<Una volta gli chiesi: “Giovanni, qual è il momento più bello nel tuo lavoro? Quando ascolti le parole del giudice che condanna l’imputato accogliendo le tue richieste?” Lui mi rispose un po’ scuro in volto, con aria di rimprovero: “Non mi conosci bene se pensi che io possa essere felice per aver mandato qualcuno in galera”. “E allora?”, io incalzai. “Beh, Francesco, è l’attimo in cui capisco, dalla parola di un testimone o da un rigo di un verbale, che l’imputato è innocente. Tirare fuori dalla cella una persona senza colpe è una sensazione inebriante. Non so se sia felicità, ma se non lo è, le somiglia parecchio”>> (Francesco Caringella, Non sono un assassino, New Compton editori, 2014).
Lo splendido dialogo tra Francesco Prencipe (il vicequestore protagonista del magistrale legalthriller di Caringella) e Giovanni Mastropaolo (il Pubblico Ministero che nel romanzo sarà presto assassinato) illumina la posta in gioco nel drammatico dibattito sulla “riforma” (rectius, eliminazione) della prescrizione penale, che il Movimento 5 Stelle sembra aver imposto all’intero Governo nel (significativo) ambito del d.d.l. “spazza corrotti”, ora in discussione nella prima Commissione della Camera dei Deputati. Dibattito drammatico, in quanto, se dovesse davvero condurre al preteso azzeramento della prescrizione penale dopo il primo grado di giudizio, verrebbe mutata l’essenza stessa del rapporto fra giustizia e persona come voluto dalla Costituzione italiana e dalla tradizione giuridica occidentale.
<<Vedi Francesco – confidava il Sostituto Procuratore Mastropaolo al suo collaboratore – gli avvocati, la stampa, la gente, e purtroppo anche molti miei colleghi … non capiscono che il pubblico ministero è l’unico avvocato che difende entrambe le parti del giudizio: l’accusa e la difesa. E’ l’avvocato dell’accusa, perché deve chiedere l’arresto e la condanna degli imputati che ritiene colpevole. Ma come avvocato della difesa è tenuto anche a ricercare le prove a favore dell’indagato e a chiederne l’assoluzione se lo ritiene innocente>> Perché, <<dietro ogni reato c’è una vicenda umana più interessante del reato stesso – e – l’azione criminosa appartiene a una persona, a un momento preciso della sua esistenza. Occorre entrare nelle viscere di quell’uomo e addentrarsi nel labirinto della sua mente per capire di fronte a quale reato ci si trova>>. Ma <<per molti chiedere l’assoluzione significa ammettere un errore. Un gesto inconcepibile per i magistrati, uomini in genere ‘pieni di consapevolezza’. Per me è una stronzata. Se io mi rendo conto che l’uomo che ho sbattuto al fresco può essere innocente, mi precipito a cercare ulteriori prove e, se resta il dubbio, be’, allora ne chiedo l’assoluzione>>.
Infatti, per il PM del bestseller di uno dei più grandi magistrati italiani <<il processo non è un duello tra pubblico ministero e imputato. In ballo c’è la legge da applicare e la coscienza da ascoltare. Soprattutto, c’è un uomo che rischia di marcire in galera. Anche se è innocente” (Francesco Caringella, op. cit.).
Si tratta della stessa prospettiva antropologica scolpita all’art. 27 della nostra Carta Costituzionale: la persona è talmente al centro della Res publica da essere ritenuta titolare di “diritti inviolabili” (art. 1), cosicché non si può guardare ad essa se non rispettando quell’ unicum che è la storia di ciascun soggetto, come insegna – appunto – il Sostituto Procuratore del thriller di Caringella.
E nell’art. 27 della Costituzione poggiano le architetture essenziali di un diritto penale che possa declinare un giudizio di giustizia umana, di condanna o di assoluzione, di fronte a una prospettiva tanto vertiginosa, quale é quella del destino di un uomo in carne ed ossa,
Innanzitutto, se “occorre entrare nelle viscere di quell’uomo e addentrarsi nel labirinto della sua mente per capire di fronte a quale reato ci si trova” (Caringella, cit.), ciò impone più gradi di giudizio con condizioni di garanzia per la persona (cfr. art. 111 Costituzione) prima di ritenere accertato un delitto, fino all’esito dei quali l’innocenza viene con coerenza imposta per presunzione costituzionale.
Infatti, l’art. 27 Costituzione, al comma secondo, dispone senza equivocità ed espressamente il “principio di innocenza” (rectius, di “non colpevolezza”) fino alla sentenza finale, fino al giudicato, il che é conferma procedurale che il “singolo uomo” viene prima di qualsiasi pre-giudizio, nonché paradigma di un rapporto necessariamente prudente fra giustizia umana e “inviolabilità” di ciascuno.
Infine, la necessità di termini temporali per l’iniziativa inquisitoria dello Stato e per la conseguente verifica giurisdizionale, pena la prescrizione di tali attività, discende more geometrico dal medesimo ceppo culturale.
Se, infatti, lo Stato (ovvero il PM che ha la “procura” della Repubblica per esercitare l’azione penale) intende rispettare l’unicità di ogni persona, allora la pretesa di accertare un reato, che può condurre ad un condizionamento radicale del destino di libertà di un uomo in ipotesi innocente, non può che svilupparsi in un ragionevole tempo massimo. La prescrizione è, perciò, uno dei cardini della concezione del rapporto fra giustizia penale e persona assunto dalla prospettiva costituzionale e dalla tradizione giuridica occidentale, in quanto il principio di innocenza postula ed implica proprio l’istituto della prescrizione.
Ma vale anche l’opposto: ipotizzare di eliminare la prescrizione significa riferirsi ad un diverso giudizio valoriale.
In effetti, qualora l’ombra inquisitoria potesse allungarsi su un cittadino per sempre, senza confini temporali, avverrebbe di fatto una inversione nel fondamento teorico della giustizia occidentale: il baricentro verrebbe radicalmente rovesciato sul potere inquirente, che non incontrerebbe più limiti e la persona apparirebbe definitivamente dissolta ai margini delle aule dei tribunali, possesso di uno Stato padrone e misura della vita di ciascuno.
I nemmeno troppo velati echi di una simile concezione risuonano al paragrafo 12 del “Contratto per il governo del cambiamento”, dove si ritiene “necessaria una efficace riforma della prescrizione dei reati” “per evitare che l’allungamento del processo possa rappresentare il presupposto di una denegata giustizia” (!).
Dunque, per quel che la sintassi consente di intendere, se il processo dello Stato a un imputato non potesse durare senza limiti, saremmo – si badi bene – di fronte a una “denegata giustizia”, ma per lo Stato!
In altri termini, nella prospettiva del “contratto di governo” sarebbe lo Stato ad avere il” diritto” di fare giustizia verso i cittadini! Ciò tuttavia significa che a monte è stata posta una specifica, ineliminabile premessa: i cittadini sono sempre concepiti come potenziali colpevoli.
La “presunzione” costituzionale è perciò ribaltata: quella di “innocenza” dell’art. 27, comma 2, viene sostituita da una opposta “presunzione di colpevolezza”. E, coerentemente, la vita di un “colpevole” non può, non deve interessare, cosicché i “presunti colpevoli” meritano un destino di processo permanente, per consentire indefinitamente allo Stato di esercitare il “suo” diritto a fare (o farsi…) giustizia nei loro confronti.
Non si può nascondere o fingere di non vedere quale sia l’esito strutturale della riforma pentastellata: attraverso l’eliminazione della prescrizione penale si ottiene surrettiziamente anche la pratica riscrittura dell’art. 27, comma 2, della Costituzione, negando il relativo e fondamentale principio di non-colpevolezza fino al giudicato, giudicato che così potrebbe anche non arrivare mai.
Di fronte a simili scenari, in cui si pretende il ribaltamento dei fondamenti antropologici della giustizia, come confermati dalle scelte costituzionali, non basta traccheggiare ottenendo appena il differimento di qualche termine parlamentare.
Tutti, e soprattutto chi sostiene il Governo, hanno il dovere di prendere una posizione chiara e “non negoziabile” di fronte al rigurgito culturale di un modello di Stato-padrone e al dissolvimento della centralità della persona.
Né si può essere ambigui rispetto al sostanziale sovvertimento del principio di non-colpevolezza scandito da una disposizione, l’art. 27, comma 2, della Costituzione fondante il sistema teorico e ideale della giustizia penale italiana. Una modifica costituzionale che il “contratto per il governo del cambiamento” non ha avuto il coraggio di esplicitare, introducendola surrettiziamente, subdolamente.
Qualcuno pertanto abbia, ora, la libertà di dire che se si voleva arrivare a questo segno c’è un errore. Anche perché nel nostro ordinamento un errore essenziale (oltreché ben riconoscibile) può ancora far annullare i contratti. E così restituire, anche ai politici del cambiamento, quel fremito “inebriante” di fronte a un innocente, quel fremito che “somiglia parecchio alla felicità” (Caringella, cit.).
Domenico Menorello