Mentre leggevo le tanto acute quanto drammatiche note del Centro Studi Livatino sulla recente «Relazione al Parlamento sullo stato delle dipendenze in Italia» sono riaffiorate alla mia memoria un’immagine e un’esperienza dell’adolescenza, che lasciarono – grazie a Dio – il segno sulla mia giovinezza.

In una serata piena di stelle di un campo estivo parrocchiale sulle Dolomiti di circa trentacinque anni fa, un giovane e vivace prete domandò a bruciapelo al nostro gruppo di amici quindicenni raccolti a cerchio attorno a un fuoco: “Voi perché non vi drogate?”. E bocciò una dopo l’altra le raffazzonate (seppur giuste) risposte “moralmente corrette”, così come quelle dettate da (seppur inoppugnabili) preoccupazioni per la salute. A quel prete, così appassionato a noi, non bastava nemmeno rimbalzarci addosso la (seppur palpabile) paura per le tante morti di amici poco più grandi di noi, che in quegli anni ‘70 venivano falciati a decine dall’eroina. Fu soddisfatto solo quando, in quel verticale dialogo che stava mettendo a nudo il nostro animo inquieto, uno di noi semplicemente rispose di non drogarsi perché “non ne aveva bisogno”.

A quale bisogno esistenziale rispondeva e risponde, invece, la droga?

Questa domanda non viene più posta.

Di fronte al dramma sociale descritto dalle impressionanti 296 pagine del Dipartimento Politiche Antidroga della Presidenza del Consiglio, cioè di fronte a quei 660.00 ragazzi censiti come consumatori di droghe nel 2018 (il 25,6%!), Governo e Parlamento hanno piuttosto offerto un immorale silenzio.

D’altronde, in questi giorni solo poche voci solitarie, come quelle molto autorevoli della Comunità San Patrignano o del procuratore e magistrato Nicola Gratteri, si sono levate nel deserto per denunciare i danni neuropsichiatrici provocati massivamente anche dalle c.d. droghe leggere (che poi tanto “leggere” non sono più).

Perché, salvo sparute eccezioni, le forze parlamentari tacciono di fronte alle conseguenze sanitarie attestate dalle fonti governative preposte?

Perché evidenze tanto gravi sulla salute dei giovani sembrano non avere alcun ruolo nel contenere il dilagare dell’utilizzo di droghe?  Perché non scatta una rivolta dei padri e delle madri a difesa dei nostri ragazzi?

Perché possibili danni neurofisici tanto estesi non hanno nemmeno impedito alle Sezioni Unite penali della Cassazione di preannunciare, il 19 dicembre scorso, una sentenza di prossima pubblicazione, che dichiarerà lecita la coltivazione “personale” di cannabis? Come può la “suprema” Magistratura italiana surrogarsi ancora una volta al legislatore, per spalancare il baratro di una annunciata pandemia fra una popolazione che potrà coltivare lecitamente fra le mura domestiche sostanze nocive per sé e i propri figli?

Aveva davvero ragione quel giovane prete a non fermarsi alle obiezioni per così dire “sanitarie” rispetto all’uso di droga. Nemmeno queste reggono.

Ci sono evidentemente ragioni più profonde, più forti persino di quelle mediche, che spingono verso la droga. Dobbiamo aiutarci ad avere il coraggio di osare un giudizio esistenziale e chiedere un dialogo, pubblico, su un livello più essenziale, che metta a nudo il dramma umano, il “bisogno” di cui la droga pretende di essere una risposta.

La droga, pesante o leggera che sia, allontana la realtà, promette una fuga dalle circostanze concrete.

È il crinale più grave. Perché lasciarsi interrogare dalla realtà, dalla vita come “dono”, come “dato”, dal Segno della sua bellezza come dalla sua sfidante drammaticità è la strada normale per imparare una postura e uno sguardo pienamente umani, spalancati per desiderare e sperare il compimento di sé in una pienezza di vita.

Chiudere questa apertura è disumano, è contro il cuore della propria umanità. E se cerchiamo di fuggire il reale, è perché di esso prevale inconsciamente la paura, come se volessimo fuggire da un corridoio buio, senza luce, pieno di nulla.

Temiamo che la vita corra verso il nulla. E’ allora che si scappa.

È il dilagante nichilismo, affermato teoricamente nella sua versione edulcorata del relativismo o, più spesso, inculcato praticamente ma potentemente dalla mentalità dominante, che fa paura. Che fa scappare. Così, la droga dilaga se si affievolisce o svanisce la Speranza di un Senso nella vita. Se non speriamo in un annuncio di pienezza per ogni istante di vita. Se nessuno ci parla o ci fa vedere il “centuplo quaggiù”.

Chi tace di fronte al nulla da cui scappano centinaia di migliaia di giovani, chi addirittura dichiara come modello la coltivazione dello stesso nulla “per uso personale” nega la Speranza, che rende la vita desiderabile e umana.

Chi, invece, non si arrende a questa “cassazione” della Speranza, non si arrende alla droga. Non la desidera. Perché – come ribadì con un sorriso grande così quel prete in quella sera stellata  – non ne ha bisogno!

Per questo è ancora possibile augurarci, con rinnovata sorpresa, buon anno!

Domenico Menorello

 

 

 

 

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