Gianluigi Gigli, deputato della XVII Legislatura, già presidente del Movimento della Vita, cofondatore dell’ Osservatorio parlamentare “VERA LEX?” e soprattutto, da primario neurologo ad Udine, coraggioso protagonista controcorrente della battaglia per difendere la vita di Eluana, ricostruisce con precisione come andarono i fatti, per identificare la pretesa ideologica che, poi, dalla legge 219/17 ai disegni parlamentari di questi giorni invade l’Italia. Si vuole “l’affermazione ideologica della volontà di potenza dell’uomo sulla vita”. Chi deciderà di resistere ancora?

Sono passati dieci anni da quando la conclusione della vicenda umana di Eluana Englaro lacerò la città di Udine, l’opinione pubblica nazionale e le stesse Istituzioni. Per la prima volta nella storia della Repubblica una grave disabile veniva lasciata morire per denutrizione e disidratazione con la collaborazione di strutture che avrebbero dovuto essere votate alla cura.

Si concludeva così un lungo iter, promosso dal padre-tutore di Eluana per porre fine ad una condizione di vita misteriosa, che non corrispondeva più alla immagine di vitalità che egli serbava nel cuore. La decisione, clinicamente assurda, di non passare durante 17 lunghi anni dalla fase transitoria della nutrizione col sondino nasogastrico, a quella molto più agevole attraverso la PEG, tipica delle condizioni di lungo periodo, testimoniava il rifiuto precoce di una condizione giudicata priva di insufficiente dignità.

Beppino Englaro trovò una sponda nella Consulta Nazionale di Bioetica, un gruppo di medici e giuristi uniti dall’obiettivo di ottenere anche in Italia il riconoscimento del diritto assoluto all’autodeterminazione nelle scelte di salute.

Dopo numerosi processi, nel luglio 2008 la Cassazione riconobbe infine il diritto al rifiuto dei sostegni vitali nella sola condizione di stato vegetativo permanente, purché fossero certe la volontà di chi rifiutava le cure e l’irreversibilità dello stato vegetativo. La Corte d’Assise di Milano ritenne che l’una e l’altra condizione fossero acclarate. In realtà, neanche la polizia poté portare prove di una volontà diversa da quella manifestata dal padre, poiché ogni decisione sulla vita di una giovane donna era stata astutamente trasferita in sede civile, dove solo le parti interessate hanno diritto di contraddittorio. Per quanto riguarda l’irreversibilità dello stato vegetativo, in sé indimostrabile, i magistrati non chiesero verifiche, malgrado qualche dubbio diagnostico sarebbe stato giustificato. Infatti, nella cartella clinica risulta annotato che in rare occasioni Eluana aveva chiamato la mamma o eseguito ordini semplici, segni questi incompatibili con lo stato vegetativo. Decine di illustri neurologi chiesero che fossero eseguiti più approfonditi accertamenti con le nuove tecniche di valutazione dello stato di coscienza attraverso la risonanza funzionale o la PET, ma ogni richiesta fu respinta. A causa dell’opposizione delle strutture sanitarie lombarde e delle difficoltà riscontrate in altre sedi, Eluana fu portata a Udine per la disponibilità del Consiglio di Amministrazione de “La Quiete”, una struttura di ricovero sotto il controllo dell’Amministrazione Comunale, allora retta da una giunta di sinistra. Udine presentava alcuni indubbi vantaggi: un primario anestesista disponibile (al momento dell’arrivo di Eluana a Udine dichiarerà che per lui Eluana era morta 17 anni prima!); il quotidiano locale (il Messaggero Veneto) e la sede regionale RAI decisamente schierati; anche i rappresentanti delle Procure locale e regionale, fortemente condizionanti i fatti, apparivano condividere le stesse opzioni ideologiche. Soprattutto, a Udine vi era Renzo Tondo, un Presidente della Regione che, benché di Forza Italia, rivendicherà successivamente sul Corriere della Sera di essere stato il “regista” dell’operazione, insieme a un piccolo ma influente manipolo di sedicenti allievi ed “eredi” di Loris Fortuna.

Fu questo concentrato di poteri che permise il realizzarsi a Udine di condizioni “blindate” per resistere a ogni considerazione giuridica e amministrativa.

Per aggirare l’atto d’indirizzo del Ministro Sacconi che vietava la procedura nelle strutture del Servizio Sanitario Nazionale, la Quiete “cedette” alcune stanze ad una associazione costituitasi il giorno prima, realizzando una area per così dire “extraterritoriale” rispetto alla sanità regionale, una unità di degenza priva di ogni autorizzazione ad operare,  alla quale, tuttavia,  non furono posti i sigilli di sequestri giudiziari,  malgrado i rilievi dei Carabinieri dei NAS e degli Ispettori del Ministero della Salute. Nel frattempo si consumava a Roma uno strappo istituzionale tra il Governo Berlusconi, intervenuto, forse tardivamente, con un decreto governativo, e il Presidente della Repubblica Napolitano, che si rifiutò di firmarlo.

Il 9 Febbraio Eluana moriva e l’Avvocato Campeis ringraziava i giornalisti con una importante cena nella sua villa seicentesca.

Maurizio Mori, della Consulta Nazionale di Bioetica, scriveva sul Manifesto dell’11 Febbraio che quanto accaduto a Udine era paragonabile per la Chiesa a una nuova Porta Pia, non certo per la perdita del potere temporale, ma per la sconfitta della visione cattolica sul significato della malattia e della sofferenza e sulla dignità degli esseri umani in condizioni di disabilità estrema.  Oggi, scrisse, è stata sconfitta la pretesa cattolica che la vita sia sacra.

Negli anni successivi, la deriva radicale del Presidente della Camera, Gianfranco Fini, impedì l’approvazione di una legge sul fine vita rispettosa dei valori antropologici in gioco. La partita si riaprì nella XVII Legislatura, ma con mutate maggioranze. L’opposizione forte di un piccolo gruppo di parlamentari è riuscita solo a rallentare il provvedimento e a mitigare un testo che riconosce il principio della vita come bene disponibile, assolutizzando il principio di autodeterminazione. Per gli incapaci la legge affida la decisione al legale rappresentante. Ogni cittadino dunque, o chi legalmente lo rappresenta, ha diritto a rifiutare non solo le cure, ma anche nutrizione e idratazione, di cui ogni uomo, sano o malato, ha bisogno per restare in vita. Non solo, ha diritto a far questo dentro l’ospedale pubblico, senza possibilità di obiezione di coscienza da parte del singolo medico e di strutture sanitarie che adottino altri codici etici. Per far si che la morte da disidratazione e denutrizione sia indolore, è prevista la sedazione profonda. La legge 219 è stata approvata a Natale del 2017, quale ultimo atto di una Camera prossima a sciogliersi, quasi fosse il problema più urgente del Paese, con il voto favorevole di moltissimi parlamentari cattolici, inconsapevoli delle conseguenze che pure erano state previste, o forse illusi che la portata devastante del provvedimento potesse essere contenuta per via giurisprudenziale. Invece e puntualmente, le conseguenze non tardano a verificarsi, stimolate dal processo a Marco Cappato per il suicidio assistito del Dj Fabo a Zurigo.

Nel decidere sull’accusa di reato di istigazione e aiuto al suicidio (art. 580 del codice penale), la Corte di Assise di Milano assolve Cappato per quanto riguarda l’istigazione, ma evita di condannarlo per l’aiuto oggettivamente prestato, rinviando gli atti del processo alla Corte Costituzionale.  Nell’ordinanza di rinvio, i magistrati milanesi, con logica prevedibile, fanno leva proprio sulla legge sul biotestamento, affermando che la 219/2017 ha introdotto il diritto al suicidio da rinuncia alle cure o ai sostegni vitali, legalizzando nei fatti l’ “eutanasia indiretta omissiva”, pur senza riconoscere il diritto alla scelta delle modalità di suicidio. Tuttavia, il fatto che un paziente non possa pretendere dai medici la somministrazione di un farmaco che procuri la morte, non nega “la libertà della persona di scegliere quando e come porre termine alla propria esistenza”, fondata sugli artt. 2 e 13 della Costituzione.

Finalmente, con l’ordinanza n. 207 depositata il 16 novembre scorso, la Corte Costituzionale, nel sospendere il giudizio su Cappato, invita il Parlamento a legiferare nuovamente sul fine vita entro il 24 settembre 2019, per evitare che sia la stessa Corte a modificare con interventi soppressivi l’art. 580 del C.P. La porta per il suicidio assistito in Italia è ormai aperta. Dieci anni dopo la morte di Eluana, ad ostacolare il compimento del progetto della Consulta di Bioetica resta in piedi solo l’articolo 579, quello che sanziona l’omicidio del consenziente. A sgombrare il campo da questo impaccio provvederà il progetto di legge per la legalizzazione dell’eutanasia, la cui discussione è appena incominciata in Parlamento. I mutamenti prodottisi dopo la morte di Eluana sono stati profondi. Insieme alla vocazione delle strutture sanitarie rischia di essere sovvertita la natura stessa della professione medica. Soprattutto si è attenuata la resistenza delle coscienze e del tessuto sociale verso «l’affermazione ideologica della volontà di potenza dell’uomo sulla vita». Non sarà possibile costruire una società più umana senza riesaminare criticamente quel che è accaduto lungo la via italiana all’eutanasia.                                                                                        Gianluigi Gigli

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